Alcuni casi di pubblicità che hanno suscitato scandalo e condanne per l’utilizzo del corpo femminile o dell’allusione ad esso, con doppi sensi erotici, per catturare l’attenzione a fini promozionali di prodotti peraltro totalmente estranei al tema

La tematica non è nuova nel nostro blog: alcuni cartelloni pubblicitari talvolta possono risultare un po’ “spinti”, oltre che offensivi per il genere e la persona femminile.

E’ il caso, ad esempio, di una macelleria italiana, che, ad inizio 2020, ha fatto esporre un manifesto mostrante il corpo di due donne riprese da dietro, in abbigliamento intimo, con i fondoschiena in primo piano, di cui uno apparentemente più “tonico” dell’altro, e la scritta “la carne non è tutta uguale”.

Per tale cartellone, dopo la condanna sui social, è arrivata la censura dello Iap (Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria), che con un’ingiunzione ha spiegato che questa pubblicità è contraria alla lealtà della comunicazione commerciale ed al rispetto della dignità personale, poiché la figura femminile viene strumentalizzata al mero fine di attirare l’attenzione del pubblico, creando una commistione tra il suo corpo e il prodotto pubblicizzato che implica inevitabilmente la mercificazione della persona. Non esiste, infatti, giustificazione narrativa o relazione tra l’immagine e le caratteristiche del prodotto offerto; tale sfruttamento gratuito del corpo femminile amplifica la violazione, oltretutto con un mezzo invasivo esposto ad un pubblico indifferenziato e non mirato.

Un altro caso ancora, sempre risalente ad inizio 2020, ha riguardato una catena statunitense di fast food, che ha lanciato in Australia un video pubblicitario di 15 secondi nel quale una giovane donna con tutina corta e scollatura si specchia nei vetri oscurati di un’auto, prima di accorgersi che, nel veicolo, ci sono due ragazzini che la fissano a bocca aperta, con la loro madre che guarda con disapprovazione. La ragazza sorride timidamente, poi chiede se qualcuno ha pronunciato il nome della catena di fast food.

Il contraccolpo sui social media e la segnalazione del sessismo presente nello spot – mandato in onda in televisione e condiviso sul canale YouTube dell’azienda – da parte di Collective Shout, gruppo australiano che promuove campagne contro l’oggettivazione delle donne, ha spinto la compagnia a scusarsi in maniera formale.